Cultura

1869, l’anno della strage degli evangelisti a Barletta

La Redazione
Una foto dell'epoca
La ricostruzione del Direttore Archivio di Stato di Barletta-Andria-Trani
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In quegli anni, all’indomani dell’unità d’Italia, erano presenti sul territorio nazionale, comunità evangeliche numericamente rilevanti: la congregazione di Milano, fondata nel 1859 contava all’epoca della strage di Barletta all’incirca 400 fedeli. La comunità di Barletta che nel 1866 annoverava una sessantina di membri, non era quindi una novità anche perché, negli anni precedenti, erano state fondate nuove comunità in tutta la Puglia come a Bari e a Corato. Ed è in questo contesto che alcuni sacerdoti e frati predicatori cattolici, come risulta dalle carte processuali, pianificarono l’azione nei confronti degli evangelisti.

Questa piccola comunità si era formata grazie a Gaetano Giannini, fiorentino, che nel 1865 era giunto a Barletta. Il Giannini si era convertito alla chiesa battista di Firenze nel 1854 durante la persecuzione granducale ed era uno dei diaconi nel 1859. Dopo l’annessione delle Marche avvenuta nel 1860 iniziò un’opera missionaria finanziata dal comitato di Nizza e, nel 1861, era già riuscito a fondare un notevole gruppo ad Ancona, Fano (dove una folla inferocita lo costrinse a chiudersi in casa per un mese), Pescara e Chieti.

Giunto a Barletta nel 1865  fondò una chiesa e una scuola evangelica nelle quali predicava “ … l’annuncio della salvezza in Cristo senza indulgere ad accuse contro il papato e contro il clero…” così frequenti nelle prediche protestanti dell’epoca.

Gli evangelici, nelle “predicazioni quaresimali” tenute in prossimità della Pasqua che il quel 1866 sarebbe caduta il 1° aprile, erano additati come la sicura causa di alcune sventure, carestie ed epidemie di colera, abbattutesi sulla regione e su Barletta in particolare.   

La situazione era così tesa che il 19 marzo un ufficiale di pubblica sicurezza sentì alcune persone “inveire contro i protestanti” decidendo di portarle in caserma per interrogarle. Fu allora che scoppiò la sollevazione popolare contro gli evangelici.

Gli atti processuali così riportano quanto accadde del disgraziato pomeriggio del 19 marzo 1866 “ Erano circa le ore due di giorno (le quattordici) ed un nucleo di fanatici contadini avvinazzatisi nella cantina di Fedele di Troja col grido di “morte ai protestanti”si condusse nella vicina piazza così detta del Palazzo, ove tosto a quei primi si associarono centinaia di popolani avviandosi tutti per la strada principale corso Vittorio Emmanuele, spregiando le intimazioni reiterate degli Agenti della Sicurezza Pubblica che cercavano moderarne e contenerne gli eccessi… Quella moltitudine colà non incontrò resistenza di sorta e però a sicurtà si introdusse nella strada del Pesce ch’è di rincontro ove fra le prime case trovasi quella di Fusco Filippo, nella quale avea stanza il Ministro Evangelico Gaetano Giannini. La plebe inferocita investì quella casa, ascese nel quarto superiore e non trovando colui che facea segno al massacro, perché ebbe tempo a svignarsela, sfogò l’ira sua distruggendo quanto eravi in quella casa…Fu ferito Filippo Fusco e sua moglie Cristina Petrucci e, barbaramente percosso, fu ucciso Giuseppe Delcuratolo il cui cadavere inoltre fu arso in parte. La massa di popolo schiamazzante prese la volta della Sotto Prefettura credendo che il protestante (Giannini n.d.r.) si fosse rifugiato colà. Gridò morte al Sotto Prefetto che inseguì lanciandogli dei sassi e lo stesso potè salvarsi dall’ira del popolo solo fuggendo su pei tetti. Ciò non è tutto perché altre nefandezze si commettevano. Ignazio Lanza, giovane quanto buono altrettanto sventurato, percosso spietatamente dapprima innanzi la Chiesa del Sepolcro, fuggì per strade meno frequentate ma  raggiunto al largo del Castello ed inseguito fino alla Chiesa di S. Maria fu barbaramente massacrato colà. Ancora un giovine barbiere Francesco Peres venne percosso nella strada del Crocifisso e quindi ucciso innanzi la Chiesa S. Pasquale. La stessa sorte malauguratamente toccò in un altro sito della Città al sellaio Ruggiero D’Agostino seguace della fede evangelica, la cui casa venne pure saccheggiata…e da ultimo venne distrutta la casa di Domenico Crusciulicchio altra vittima designata del fanatismo religioso della plebe superstiziosa e feroce. Perpetrati tanti atroci malefizi la plebe ammutinata non si sciolse, continuò a percorrere le strade principali della Città, ma la truppa di linea, la sola che operò con energia e valor, cacciatasi in mezzo a quei fanatici cominciò a sbaragliarli, e la fermezza di quel Pretore che fece eseguire l’arresto dei due che andavano alla testa del popolo portando l’uno una croce e l’altro una bandiera nazionale, valse a disperdere diffinitivamente gli assembrati”.

  A quei primi due seguirono, la stessa sera del tumulto, tantissimi altri arresti e molti ancora, le autorità locali, ne effettuarono durante tutta la notte.

 La mattina seguente, il 20 marzo, il Giudice Istruttore si recò nella nostra città con il Procuratore del Re e con il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Trani e dopo parecchi giorni di indagini e riscontri, formulò l’incriminazione per 232 persone delle quali 166 erano agli arresti e per gli altri 66 era stato emesso mandato di cattura.

 Il processo o, come diremmo oggi, il maxi-processo di primo grado, come è facilmente intuibile visto il numero elevatissimo degli imputati, durò quasi un anno e mezzo (non poi così tanto rapportato agli attuali) e il giorno 20 dicembre del 1867 la Corte di assise di Trani composta dal Presidente Signor Teseo de Lectis e dagli assessori (oggi giudici a latere) signori Salvatore Inghingoli e Achille Borghi, visto il verdetto della giuria e “visti gli articoli 21-22-75 del Codice Penale , 568-569 Proc. Pen.”, condannava alla pena più pesante, diciotto anni di “lavori forzati e la interdizione dai pubblici uffizi ed a quella patrimoniale durante la pena” Padre Vito Maria da Rutigliano al secolo Angelo Marzovillo, Ruggiero Postiglione, Pasquale Annini, Michele Cantore, Ignazio Papasso, Raffaele Fiorella, Francesco Musti, Luca Ricatti, Francesco Torre e Francesco Ventrella. Tutti gli altri imputati furono condannati da un minimo di un anno ad un massimo di dieci anni di reclusione.

 Il “fattaccio” giunse, ovviamente, a Roma sugli scranni del Parlamento e se ne discusse nella tornata del 20 aprile del 1866, presieduta dall’avvocato liberale Adriano Mari.   

Tra i primi ad intervenire, una personalità dell’epoca Francesco Crispi (si, proprio quel Crispi che con Umberto I sarà Presidente del Consiglio), il quale dichiarò in maniera pesante e da protestante in fieri che “il cattolicesimo finirà; ed allora il cristianesimo, che falsi ministri deturpano, purgandosi dei vizi della Chiesa romana, riprenderà l’antico prestigio e diventerà facilmente la religione dell’Umanità. Ma finché in Roma ci saranno il papa e i cardinali, finché in Roma papa e cardinali avranno un potere politico, cotesta riforma non sarà possibile”. Praticamente una crociata al contrario o se preferite la legge del contrappasso.

    Leggendo l’intervento di Crispi si potrebbe pensare che sia stato molto duro, invece la sua invettiva assume le sembianze di un complimento se la si paragona ad una vera e propria requisitoria pronunziata da Giuseppe Civinini, garibaldino, stretto collaboratore di Mazzini e affiliato alla loggia massonica torinese “Dante Alighieri”. Il deputato, in quel 1866 con “sinistra storica”  (dopo solo un anno sarà riconfermato deputato grazie ai voti della destra di Bettino Ricasoli) chiesta la parola dette inizio al suo intervento (Catone il censore gli avrebbe fatto un baffo!) affermando “…Troverà strano la Camera che io mi preoccupi tanto dei seminari. Ma per poco che la Camera ci ponga attenzione, vedrà che la questione è gravissima. Signori, da un lato la setta clericale con ferro e col fuoco ci assale in Barletta, e tenterebbe assalirci in tutto il regno, se ne avesse, non dirò la forza, ma piuttosto il coraggio. Il ministro dell’interno, delle stragi di Barletta, ci dice che si tratta di fatti speciali isolati, senza nessuna conseguenza, né diramazione, ma il fatto è che le ricerche ulteriori provano ampiamente che esiste una congiura che tende ad opprimere la libertà e i fautori di lei. Mentre adunque la setta clericale, senza distinzione di mezzi, ci fa la più aspra e disperata guerra, noi affidiamo parte della nostra gioventù ai preti… (mamma mia che mazzata!)”. E continuava “… Io desidero anche domandare all’onorevole ministro della pubblica istruzione, se egli crede di essere più fortunato del suo predecessore, e venire a capo di una importante questione quale quella di Barletta. I seminari sono scuole di ribellione, scuole di corruzione, scuole d’ignoranza. Ricordo alla Camera che degli 82 seminari chiusi, 50 furono chiusi per espressa e dichiarata resistenza alla legge. Ora io domando: fino a quando noi vogliamo predicare per conto del papa, fino a quando noi, nemici del papa, vogliamo darci briga di salvare la religione cattolica?”. E vai con la distruzione!

Ovviamente i pensieri riportati furono frutto della spinta emozionale (?) creata dalle vittime di quel maledettissimo 19 marzo, dalle idee politiche personali  ed altrettanto chiaramente non potevano tener conto di quello che sarebbe successo tre anni dopo e cioè alla fine del 1869 quando fu emessa la sentenza dalla Corte di Assise di Lucera alla quale erano ricorsi, in appello, i condannati in primo grado.   

 Purtroppo di quel dibattimento, a differenza del primo grado, non esistono più le carte processuali. Al contrario e per fortuna, esistono ancora i giornali dell’epoca. Uno di questi, “La Patria” di Napoli del 4 gennaio 1870 riportava “ Il Popolo d’Italia ha una corrispondenza da Barletta, in cui si annunzia che il verdetto dei giurati della Corte di Assise di Lucera, dopo due mesi di dibattimento, ha mandato assolti i cattolici di Barletta, i quali dal Giurì di Trani erano stati tutti condannati”. Ed ancora il Vero, sempre di Napoli, del 6 gennaio aggiungeva “Si gridò tanto contro preti  e monaci tre anni or sono (1867) per la così detta reazione di Barletta. Rifattasi in questi giorni in grado di rinvio (appello) la causa presso le Assise di Lucera, il frate Vito Maria ( Padre Vito Maria da Rutigliano al secolo Angelo Marzovillo) ed il canonico Postiglione (Don Ruggiero Postiglione), gridati capi del movimento, furono assolti”.

La sensazionalità della sentenza di secondo grado fu ovviamente creata dall’assoluzione dei due religiosi dato che erano stati etichettati, come scaturito dagli atti prodotti dal processo di Trani e riferito dalla stessa stampa, “sobillatori e capi del movimento”.

Come sentenziava il sempiterno Cicerone “È necessario scegliere dopo aver giudicato e non giudicare dopo aver scelto”.

 

Michele Grimaldi, Direttore Archivio di Stato Bari Barletta Trani
 

 

domenica 20 Marzo 2022

(modifica il 12 Luglio 2022, 13:18)

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