Il mito di Ulisse

Marilù Liso e Saverio Costantino
Il sintomo come "compagno" di viaggio
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Spesso noi terapeuti restiamo perplessi quando ci troviamo di fronte all’ostinazione con cui un paziente “trattiene a sé” un sintomo, pur avendo raggiunto egli stesso la consapevolezza di quanto quel sintomo non gli serva più.

In realtà, il sintomo è qualcosa di estremamente seduttivo, intrappolante, proprio come il canto delle Sirene. “Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce”. Quando si legge del canto delle Sirene, lo stesso viene sempre rappresentato come una melodia che crea dipendenza, ammalia, stordisce, ma è pericoloso, proprio come certe situazioni che ci catturano lasciandoci impotenti, pur avendo la certezza di volercene liberare.

Spesso il sintomo diventa un vero e proprio bisogno di adattamento, un bisogno creativo, la necessità di trasformare in qualche modo una realtà non più rasserenante; questo accade però fino a quando non perde la funzione di “sopravvivenza” e inizia a creare malessere. I “canti delle Sirene” sono spesso creati dai nostri vuoti interiori. Non ci dimentichiamo che il gioco preferito dalla mente umana è creare resistenze, blocchi, impedimenti fino ad ottenere il controllo della persona. Cosa fare allora quando si incontrano le sirene, quando il sintomo seduce, narcotizza? Chi ne soffre vorrebbe persino essere lasciato in pace da tutti, figuriamoci dal terapeuta che ha questa “scomoda” funzione di indirizzare il paziente proprio verso la direzione da cui con abilità sta sfuggendo.

Il terapeuta, si sa, non obbliga, non costringe alla cura. È il paziente che chiede di essere guidato, ma in un percorso che io definirei unico nel suo genere, perché paziente e terapeuta sono entrambi responsabili e protagonisti nel processo di cura. Si naviga a vista, addentrandosi sempre più profondamente nella ricerca di quel “sè” rimasto bloccato. Emozioni e sintomi in alcuni momenti possono portare fuori strada, sono come i “fiori finti” che crescono sul bordo delle strade. Terapeuta e malato giocano in un territorio in cui il rapporto umano rappresenta la prima vera cura; direi che “la cura” riguarda entrambi, perché il terapeuta nel curare gli altri sta in realtà trattando anche il proprio malessere personale.

I nostri sé sono ciò che usiamo per fare terapia. Il terapeuta ha il diritto di commettere errori, svelando attraverso questi la propria umanità, riducendo quell’immagine perfetta del terapeuta che spesso il paziente ha scolpita nella sua mente. Si possono creare dei momenti di grande intensità, momenti in cui entrambi possono fare l’esperienza di comprendere e ripercorrere dei vissuti personali. Più il terapeuta crede di essere ”sano” e più fa crescere la distanza con chi gli sta di fronte. Il percorso di psicoterapia può durare anni, soprattutto quando si lavora e si scava in profondità; quella vita narrata nella stanza della terapia assume la dimensione di un’avventura, fatta di tentazioni, di tranelli che tendono a riportare il paziente spesso al punto di partenza. Ma l’antidoto resta sempre lo stesso messo in atto anche da Ulisse, lasciarsi legare strettamente al solido albero del confronto, del colloquio, utilizzando lenti che permettano di vedere tutto ciò che accade con la giusta gradazione.

venerdì 14 Maggio 2021

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